Dal 7 al 28 febbraio 2020 (prorogata al 6 marzo), inaugurazione il 7 febbraio alle 18. Il catalogo sarà disponibile in mostra.

Dario Delpin, dopo una lunga pausa, torna in Biblioteca ad esporre le sue incisioni. Le precedenti mostre risalgono infatti agli anni 2003 e 2007: quest’ultima nata a Trieste alla Biblioteca statale e alla Galleria Cartesius, successivamente fu trasferita a Gorizia, per proseguire poi a Capodistria, a Isola e a Lubiana nelle sale dell’Istituto italiano di cultura.

Nelle rituali presentazioni ai rispettivi cataloghi1 (una costante della pratica artistica di Delpin sono i cataloghi) avevo accennato alla quadreria della Biblioteca, che allora stavo allestendo e che oggi ha assunto una valenza non piccola2, e alla formazione artistica di Delpin. Due pagine che pur nella loro essenzialità presentano con chiarezza i temi che mi sono sempre stati a cuore nella progettazione di questi ventidue anni di mostre d’arte, e cioè la qualità artistica offerta e la ricaduta “bibliografico-documentaria” che ne deriva per la Biblioteca. Mi concedo quindi un bilancio del lavoro.

Non aggiungo altro a quanto scritto da Cristina Feresin, curatrice della mostra e di molte altre che si sono succedute in Galleria. Vorrei invece sottolineare l’aspetto documentario, che generalmente viene sottaciuto. Per ogni artista esposto infatti ho sempre cercato di raccogliere il massimo della produzione critica, senza porre differenze tra un catalogo consistente, un opuscolo, un pieghevole o addirittura un invito: tutti questi materiali sono stati conservati e trattati catalograficamente ad eccezione degli inviti, raccolti circa dal 1997, che sono indicizzati solo in una banca dati locale (consultabile nel sito www.bsiarte.beniculturali.it) ma non escludo che un domani possano essere riversati nel catalogo generale della biblioteca. Nel medesimo sito, attivo dal marzo 2019 e creato proprio per essere un contenitore di varia documentazione (comunicati stampa, recensioni, interviste, immagini, collegamenti ad altri siti, ecc.), sono registrate le mostre dal gennaio 2018. La volontà è quella di recuperare il più possibile degli anni passati per mantenere, almeno sulla Rete, la memoria di molta attività fatta (per essere precisi l’archivio delle mostre, ma solo dal 2011, è visibile nel sito generale della Biblioteca www.isontina.beniculturali.it).

Con lo stesso spirito documentario ho compilato il catalogo della collezione d’arte, disponibile in edizione cartacea ed elettronica, che riguarda tutte le opere d’arte (pitture, sculture, fotografie, incisioni, disegni) donate dagli artisti a conclusione della loro mostra ed esposte negli spazi pubblici della Biblioteca. Ovviamente tale catalogo non esaurisce il materiale artistico collocato nei magazzini, e quindi non esposto in cornice, per esempio le cartelle di grafiche, genere che spesso è reperibile nelle raccolte bibliotecarie e non in quelle museali. E’ bene specificare che le opere donate sono state inventariate e catalogate nella banca dati del Servizio Bibliotecario Nazionale: dal punto di vista amministrativo fanno quindi parte dei beni culturali non alienabili. Questo particolare trattamento riserva loro stabilità nelle collezioni della Biblioteca, che altrimenti non ci sarebbe stata, se fossero stati classificati come meri beni strumentali, di arredo; secondariamente tali beni sono inseriti nel catalogo insieme alla documentazione a stampa ad essi riferentesi, un indubbio vantaggio per la ricerca anche se purtroppo poco utilizzato dalle altre biblioteche partner. Dario Delpin è presente con due grandi acqueforti incorniciate: Tre batele (2001) e In attesa della potatura (2006), che significano bene il suo mondo interiore e tecnico-artistico (altre grafiche sono conservate nelle cartelle Laguna del 1983, Mistirs del 1995, Mans e fadìe del 2001).

Se volgo lo sguardo indietro, ricordo e vedo i molti artisti passati nella sala che ho voluto, in occasione del decennale della morte del pittore goriziano Mario Di Iorio, nominare ufficialmente “Galleria d’arte Mario Di Iorio”, alcuni sono ritornati carichi di esperienze, per altri è stato un contatto, fugace ma sentito, almeno da parte mia; molte le tecniche utilizzate (comprese alcune installazioni), molti i critici, pur avendo consigliato l’autopresentazione (ma, si sa, la tradizione è lenta a morire), sempre numerosa e calorosa la presenza di un pubblico fedele e appassionato: insomma un successo di cui vado fiero e che forse ha contribuito ad assegnare alla Biblioteca, in anni non facili per la cultura, una sua particolare centralità nella vita culturale cittadina, senza per questo dimenticare l’ordinato accrescimento del suo patrimonio bibliografico relativo alle discipline artistiche e architettoniche.

Sono grato all’Associazione Internazionale Incisori Contemporanei, e al suo presidente Luciano Rossetto, per il patrocinio concesso a questa mostra di Dario Delpin, artista che – come ha scritto efficacemente Enzo Santese per un catalogo del 2016 – “ha la marcata caratteristica di far viaggiare la propria vocazione poetica dalla percezione sensoriale dell’esistente al filtro dell’intelletto per una sintesi che, ad opera conclusa, solo formalmente ha un’impronta naturalistica e rappresentativa del mondo fisico, per il resto è una fonte di molteplici risvolti significanti dentro un’opera di intensa forza evocativa”.

Marco Menato, direttore della Bsi

1 Dario Delpin. Tra zolle e barene. Opere 1982-2002, a cura di Daniela Zanella, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2002, 135 p.; Dario Delpin. Incisioni 1998-2007, a cura di Claudio H. Martelli e Furio de Denaro, Trieste, Hammerle, 2007, 63 p., l’occasione è anche quella di ricordare due amici che troppo presto se ne sono andati e che, particolarmente Martelli, mi avevano incoraggiato ad intraprendere la strada delle mostre d’arte contemporanea.

2 Marco Menato, La collezione d’arte della Biblioteca Statale Isontina, Gorizia, BSI, 2018, 55 p.

Il fascino discreto delle cose ordinarie

Uno sguardo sul passato, ma senza la nostalgia e la retorica dei bei tempi andati, piuttosto una pacata e serena riflessione sulle origini e sui luoghi circostanti, un’attenta osservazione su usi e costumi della civiltà antica e di un territorio che dalla pianura sfuma fino al mare.

Il percorso artistico di Dario Delpin, fin dagli inizi, si è nutrito di tutto questo, del paesaggio rurale friulano, della laguna gradese e di una vita contadina che oramai non esiste più, ma ben presente nei suoi ricordi. Gli insegnamenti del padre Francesco, acquarellista, degli artisti Paride Castellan e Pietro Annigoni, accanto alle affinità intellettuali con Biagio Marin e Celso Macor hanno segnato in maniera decisiva la sua ricerca, quel vivere e sentire l’ambiente circostante come qualcosa di imprescindibile dal proprio fare arte.

Dario Delpin ha scelto di raccontare, attraverso la pittura e l’incisione, un mondo antico e poetico, ma non per questo meno duro e faticoso, un universo rurale privo di fronzoli e orpelli, onesto, come onesta è la sua arte, da sempre fedele a se stessa, lontana da mode e facili entusiasmi, dove il recupero della memoria si tramuta in scenari conosciuti, abituali, a volte quasi scontati, eppure così evocativi e densi di storia e significato.

Di Delpin sorprende la vastità della produzione e la grandezza del formato delle opere, soprattutto nelle tecniche incisorie dove i numeri si fanno decisamente importanti; si contano più di cinquecentocinquanta lastre incise in quarantacinque anni “sulle quali l’artista interviene con gesto sicuro, modulato, ricco di variazioni, elevando l’appunto vissuto, la notazione naturalistica, a paradigma lirico fuori dal tempo” per usare le parole di Licio Damiani.

Acquaforte, acquatinta, puntasecca, bulino, xilografia, si alternano o, come accade in diversi esemplari, convivono sulle superfici che restituiscono una trama fitta, un gomitolo di intrecci, in alcuni frangenti rigorosi e netti, in altri dal segno libero e corsivo, ammorbidito da effetti vellutati e da chiaroscuri che mettono in evidenza l’abilità tecnica di Delpin anche nel trovare e sperimentare nuove soluzioni originali.

Cesti, panieri, sacchi e damigiane, gabbie, utensili da cucina, scarpe e zoccoli da lavoro, ma anche viti e sequenze di gelsi scabri ai bordi delle strade, rientrano nella tematica della “campagna”; la meraviglia e lo stupore generati dalla visione delle cose di ogni giorno, dal gesto ripetuto del lavoro manuale che richiede pazienza e la lentezza indispensabili per realizzare un prodotto duraturo e di qualità. Sia che si tratti di descrivere lontani momenti di vita agreste, sia le atmosfere rarefatte ed irreali della laguna, dove il tempo sembra sospeso, Delpin riesce a far parlare l’oggetto e far risplendere di luce propria il contesto, merito di una manifesta sensibilità per gli eventi minimi, normali si potrebbe dire, che scandiscono però le vite di ognuno di noi quotidianamente, e di un uso sapiente dei suoi mezzi espressivi.

Si tratta proprio del fascino discreto delle cose ordinarie. Batele a riposo “tra dossi e tra lame”, tra “fiuri de tapo” e casoni, mentre le reti sono lasciate mollemente ad asciugare al sole: Delpin riconsegna un mondo d’acqua, di sabbia e di luce, di canneti e di barche, di apparente abbandono e, come evidenziato da Biagio Marin, “questa realtà non si può rappresentare senza un grande amore e senza un grande studio e anche senza un delicato continuo lavoro di traduzione in segno o in colore di ciò che per suo modo di essere è quasi inesprimibile”. 1

Attraverso opere di ampio respiro dal disegno robusto e dalle campiture luminose, Dario Delpin riesce a trasmettere lo stupore e l’emozione provati, lo straniamento malinconico generato dalla laguna e dalle sue acque fisse, la passione per la sua bellezza primordiale, inusuale, suggestiva.

Inducono, infine, ad altre considerazioni la serie delle “carceri”, incisioni ispirate alle “Carceri d’invenzione” di Piranesi realizzate tra il 1745 e il 1750. Delpin riprende gli elementi architettonici, le volte, le scale, gli spazi immensi eppure claustrofobici e labirintici indagati dall’artista veneto, in cui però inserisce gabbie vuote sospese, voliere in sequenza accatastate, elementi già presenti in alcune incisioni dedicate alla campagna. In questo contesto però, rafforzano l’aspetto frammentario e disarticolato della composizione che trova, nei lampi di luce che filtrano attraverso la grata come saette nella notte, il suo punto di fuga. Il segno è secco, teso, con momenti di squisita finezza nella definizione dei particolari, il chiaroscuro è intenso e severo, a sottolineare l’intonazione quasi drammatica dell’insieme, reso ancor più unico e prezioso dalla stampa su carta antica proveniente da libri mastro del Settecento.

Cristina Feresin

gennaio 2020

1 Dalla lettera di Biagio Marin a Dario Delpin scritta in occasione della presentazione della cartella “Laguna” pubblicata nel 1983 dal Centro Internazionale della Grafica di Venezia.